Il callo e la mente

«Se la salute mi ride e la serenità di un bella giornata, eccomi amabile; se ho un callo che mi fa dolere l’alluce, eccomi corrucciato, stizzoso e intrattabile», così scriveva il filosofo Michel de Montaigne nel Cinquecento.

Perché Michel, nella biblioteca del suo castello vicino a Bordeaux, capiva benissimo che si può filosofeggiare quanto si vuole, ma nulla si può contro il dolore di un callo al piede, finché non si toglie. E ci metteva di fronte al nostro totem ossia il nostro corpo, la nostra materia: la mente può essere intelligenza, ironia, dignità, sapienza, ma nulla può contro il corpo che invecchia, soffre, pulsa, con il doloretto insidioso o l’occhio di pernice sul mignolo del piede. Noi spesso ci dimentichiamo della corporeità, eternamente giovani ed efficienti, anche se con una dimensione migliore di quella dei tempi di Montaigne, quando a quarant’anni si era vecchi e con un piede nella fossa.

Anche lo spessore dei sensi era diverso. Vogliamo parlare dell’olfatto? Una società, fino a pochi decenni fa, non ancora nell’era dei saponi liquidi e dei deodoranti spray, nella quale i corpi emanavano “odori” animali, come ci ricorda il visionario romanzo di Patrick Süskind Il profumo con quell’incipit vorticoso di odori corporei: «Il contadino puzzava come il prete, l’apprendista come la moglie del maestro, puzzava tutta la nobiltà, perfino il re puzzava, puzzava come un animale feroce, e la regina come una vecchia capra, sia d’estate sia d’inverno. Infatti nel diciottesimo secolo non era stato ancora posto alcun limite all’azione disgregante dei batteri; e così non v’era attività umana, sia costruttiva sia distruttiva, o manifestazione di vita in ascesa o in declino, che non fosse accompagnata dal puzzo».

Se la corporeità olfattiva l’abbiamo superata a forza di saponi e spray, difficilmente la mente riesce ad annullare la corporeità. Anche Platone si sedeva sul suo rudimentale “gabinetto” e  questo ce lo rende più umano. Infatti, scriveva ancora Montaigne, «gli organi che servono a  scaricare il ventre hanno le loro proprie dilatazioni e contrazioni, oltre e contro il nostro volere». Hai voglia a filosofare, alla contrazione non si sfugge.

La stessa cosa era l’impulso sessuale, represso da secoli di morale religiosa e non: per secoli era stato considerato peccato tutto quello che non fosse pura procreazione (e anche in questo caso per dare un’anima a Dio). Quando ne La Mandragola frate Timoteo, il frate truffaldino, vuole convincere la virtuosa Lucrezia a “giacere” con uno sconosciuto, le dice che se fosse rimasta incinta avrebbe dato un’anima a Dio e quindi non avrebbe peccato. Tutto il resto era da reprimere, a tutti i costi, con l’acqua fredda e impacchi di aceto. E quando finalmente succedeva subentrava, per il maschio, l’ansia da prestazione, il non accettare la propria corporeità con pregi e difetti. Gli amanti, scrive ancora il nostro filosofo Montaigne, «avendo tutto il tempo a loro disposizione, non devono affrettare la loro impresa né tentarla se non sono pronti. Piuttosto che cadere in una perpetua miseria, per essere rimasti sgomenti e disperati del primo fallimento, attendere l’una o l’altra occasione meno agitata». Ecco che il tormento, l’indecisione e il “fallimento” vengono svuotati del loro significato negativo e diventano gestione del proprio corpo.

In fondo qual è il nostro difetto maggiore? «La più bestiale delle nostre malattie è disprezzare il nostro essere». Parola di Montaigne. 

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