Catrame e cemento

«Catrame e cemento» era quello che il ragazzo della via Gluck trovava ritornando alla sua vecchia cascina della periferia milanese, ai limiti della città che cresceva, e non trovando più il verde si chiedeva «perché continuano a costruire le case / e non lasciano l’erba».

Erano gli anni del boom economico, con l’Italia che usciva da una miseria secolare e nessuno voleva pensare al verde della via Gluck, che voleva dire andare a lavarsi «giù nel cortile» o in freddi gabinetti esterni. Solo un critico attento come lo scrittore Luciano Bianciardi (e pochi altri) vedeva il pericolo di questa corsa al consumo e a un progresso spesso fine a sé stesso, cioè al consumismo, a un Natale, periodo delle spese, che ancora non si chiamavano shopping, durante il quale, potenza della domanda e dell’offerta, il rustico e maremmano pungitopo veniva venduto al prezzo delle orchidee. E consumo significava, in quei ruggenti anni Sessanta, consumo del suolo, spesso senza regole, un’accozzaglia di mattoni e cemento, di politica e speculazione, spesso di malaffare, come Francesco Rosi descrisse in quel film, ormai classico, Le mani sulla città ( https://www.youtube.com/watch?v=rElghPCI8m4 ).

E oggi? Il consumo di suolo verde continua inesorabile, anche se ne è passata d’acqua sotto i ponti; si è sviluppato un pensiero urbanistico critico e diffuso, non più soltanto quello dei pochi pionieri di uno sviluppo controllato, che poi si sarebbe chiamato sostenibile; molte amministrazioni sono più sensibili, si sono sviluppati piani regolatori e piani strutturali. Eppure in intere zone del paese si continua a costruire agglomerati di cemento spesso senza più una logica economica che non sia il costruire, abitazioni che restano invendute, capannoni deserti, pensando a un boom che non verrà più con quelle modalità del passato.

Si pensi alla sola area del Comune di Roma, non una qualunque periferia di fabbrichette. Ebbene vi si consumano tre metri quadri di suolo al minuto. E non ci salviamo neanche in Toscana dove, malgrado l’attenzione verso il territorio, negli ultimi trent’anni sono stati consumati circa 60.000 ettari di terreno.

Il problema è: quale sviluppo?

La nostra qualità della vita individuale, il nostro benessere anche mentale, nasce dal rapporto con il contesto in cui viviamo, lo stesso concetto di bellezza, per quanto sia vario nel tempo, va visto come rapporto fra le cose, mediate dalla nostra mente. Come scrive il filosofo Georg Simmel: «La bellezza è sempre forma di elementi che in sé le sono indifferenti ed estranei e che soltanto nel loro insieme acquistano valore estetico. In ciò sta forse il fascino più profondo della bellezza». Se si vuole applicare al mondo di oggi, il senso della bellezza e quindi della qualità della vita è ancora questo: il destino della nostra terra, uno sviluppo sostenibile, una terra solidale, un sentirsi legati a un destino comune.

Ma vi sono anche problemi concreti da affrontare. Oltre alla perdita di attrattiva di certi territori, anche dal punto di vista turistico (chi preferisce un territorio cementificato a uno integro?), la cementificazione significa impermeabilizzazione del suolo, quindi dissesti idrogeologici, diminuzione di terreni agricoli spesso preziosi, diminuzione di una biodiversità già messa a durissima prova dallo sviluppo degli ultimi sessant’anni.

Non si tratta certo di rimpiangere il passato, l’età delle lucciole come diceva Pasolini. Nessuno vuole idealizzare un passato spesso duro anche socialmente. Si tratta invece di parlare di progresso, ma di un progresso che punti a un miglioramento qualitativo della vita e non solo a un aumento quantitativo.

Quando molti applaudono al Fridays for Future, pensando che alla fine sia un “movimento” inoffensivo modello “peace and love” depotenziato, debbono invece pensare che dietro milioni di giovani c’è il loro futuro e che questo futuro richiede scelte radicali. Una forza tranquilla, creativa, anche contraddittoria in una società dai forti consumi individuali, ma con una carica fortemente positiva.  

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